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Recensione: La famiglia Aubrey, di Rebecca West

Titolo: La famiglia Aubrey
Autore: Rebecca West
Editore: Fazi Editore
Pagine: 570
Prezzo: 9,99 € (ebook), 15,30 € (cartaceo)

Voto: 5/5

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Quarta di copertina: 

Gli Aubrey sono una famiglia fuori dal comune, nella Londra di fine Ottocento. Nelle stanze della loro casa coloniale, fra un dialogo impegnato e una discussione accanita su un pentagramma, in sottofondo riecheggiano continuamente le note di un pianoforte; prima dell’ora del tè accanto al fuoco si fanno le scale e gli arpeggi, e a tavola non si legge, a meno che non sia un pezzo di papà appena pubblicato. Le preoccupazioni finanziarie sono all’ordine del giorno e a scuola i bambini sono sempre i più trasandati; d’altronde, anche la madre Clare, talentuosa pianista, non è mai ordinata e ben vestita come le altre mamme, e il padre Piers, quando non sta scrivendo in maniera febbrile nel suo studio, è impegnato a giocarsi il mobilio all’insaputa di tutti. Eppure, in quelle stanze aleggia un grande spirito, una strana allegria, l’umorismo costante di una famiglia unita, di persone capaci di trasformare il lavaggio dei capelli in un rito festoso e di trascorrere «un Natale particolarmente splendido, anche se noi eravamo particolarmente poveri». È una casa quasi tutta di donne, quella degli Aubrey: la figlia maggiore, Cordelia, tragicamente priva di talento quanto colma di velleità, le due gemelle Mary e Rose, due piccoli prodigi del piano, dotate di uno sguardo sagace più maturo della loro età, e il più giovane, Richard Quin, unico maschio coccolatissimo, che ancora non si sa «quale strumento sarà». E poi c’è l’amatissima cugina Rosamund, che in casa Aubrey trova rifugio. Tra musica, politica, sogni realizzati e sogni infranti, in questo primo volume della trilogia degli Aubrey, nell’arco di un decennio ognuno dei figli inizierà a intraprendere la propria strada, e così faranno, a modo loro, anche i genitori. Personaggi indimenticabili, un senso dell’umorismo pungente e un impareggiabile talento per la narrazione rendono La famiglia Aubrey un grande capolavoro da riscoprire.


Recensione di Antonella:

Ho scelto di leggere questo libro per diversi motivi: anzitutto l’ambientazione storica, ovvero la fine del 1800, poi lo scenario della Londra all’uscita dall’epoca vittoriana, e infine il fatto che si tratta di di una saga famigliare (è il primo volume di tre). La narrazione, costruita in modo da coprire almeno un decennio attraverso gli occhi della protagonista, Rose Aubrey, ha richiamato alla mia mente altri due romanzi del genere che ho adorato: Miss Charity di Marie-Aude Murail e L’evoluzione di Calpurnia di Jaqueline Kelly, diverso per ambientazione geografica ma altrettanto affascinante.

Il filo della storia viene dipanato dalla voce narrante della piccola Rose Aubrey, che ci svela il suo piccolo mondo complesso con un acume e una freschezza che inebriano il lettore, lasciandolo talvolta basito per la sua franchezza quasi impertinente, oppure impressionato per la sobria analisi che si fatica a credere possa appartenere a una ragazzina. Eppure non c’è niente di artificioso in Rose né in sua sorella Mary, sua gemella, che molto le somiglia quanto a capacità analitiche: il loro sguardo sugli adulti e sui loro genitori in particolare risulta spontaneo, perfino impietoso, ma proprio per questo offre una chiave di lettura diversa e gradevole. Rose e Mary sono splendide, nella loro perspicacia e nella loro invidiabile complicità. Sono così argute e brillanti da strappare più di un sorriso, divertito o amaro, a seconda delle circostanze. Si ha un’idea della loro intelligente capacità di gestire le situazioni subito, nel primo capitolo, quando si trovano ad avere a che fare con una signora un po’ troppo incuriosita dalla prolungata assenza da casa del loro papà:

«La mamma», aggiunsi io, «non è abituata a stare senza papà. Lui non sta mai lontano da casa». «Tranne», disse Mary, «per andare a parlare a riunioni politiche, e in quel caso è di ritorno il giorno successivo».

«Mi chiedo perché vostra ma’ sia così in ansia, allora», disse la cugina di Glasgow. Sorridemmo nuovamente.
«Be’, è preoccupata perché non sono insieme e quindi non può prendersi cura di lui», dissi. «È molto distratto, perché è un grande scrittore».
«Oh, davvero vostro pa’ è un grande scrittore?», disse la cugina di Glasgow. «Eh-eh. Eh-eh. Un grande scrittore come Robbie Burns?».
«No, come Carlyle», disse Mary.
«Mmmmmmh», fece la cugina di Glasgow.
«Se ha voglia di stare ad ascoltare le spiego perché è come Carlyle», disse Mary. Questa era una bugia colossale, ed ero terrorizzata al pensiero che il suo bluff venisse scoperto.

Mi è piaciuto molto il modo in cui Rose e Mary forniscono informazioni poco per volta sul rapporto intercorrente tra i loro genitori, in maniera indiretta, attraverso riflessioni o commenti tra di loro; svelano solo ciò che sono in grado di comprendere, data la loro giovane età, quindi al lettore rimangono domande e supposizioni cui in parte troverà risposta, in parte forse no, ma ciò non toglie nulla alla piacevolezza di questa scelta stilistica dell’autrice, che riesce a condurre molto bene per tutto il libro. Emergono in questo modo due personaggi estremamente originali, molto ben tratteggiati in ogni sfumatura, che ci è dato conoscere poco per volta, una pagina dopo l’altra. La madre si chiama Clare, il padre Piers, ma i loro nomi non vengono mai pronunciati dalle figlie, si evincono durante la lettura. Sono figure complesse, nelle quali convivono aspetti estremamente peculiari, se non addirittura discordanti. Proseguendo nella lettura si scoprono tuttavia quelle caratteristiche che li tengono insieme, nonostante possano apparire così male assortiti: la determinazione a portare avanti una giusta causa, combattendo le ingiustizie (come nel caso di Queenie Phillips, accusata di omicidio), la forza d’animo, il coraggio di fronte alle avversità nel difendere le proprie idee.
Il personaggio della madre mi piace molto, trovo sia molto ben caratterizzato. Apparentemente così fragile, eppure è lei a portare avanti la famiglia nonostante la paura e la tristezza, e nonostante l’incostanza del marito, che ama dal profondo. Si ha l’impressione che la sua felicità dipenda totalmente dagli umori di lui e dalle attenzioni che è disposto a concederle. Anche il benessere dei suoi figli è un motore molto importante, che le consente di andare avanti sempre e comunque. Non compie un’evoluzione significativa nel corso del romanzo, ma rivela alcuni punti di forza determinanti, che devono emergere suo malgrado per consentirle di provvedere adeguatamente alla sua famiglia.
Il papà è quasi etereo, presente e assente allo stesso tempo, non un buon padre secondo il ritratto socialmente accettabile, ma adorato da tutti i suoi figli, che, come la mamma, lo seguono da lontano nell’attesa di ricevere un po’ della sua agognata attenzione. Trovo che la seguente citazione descriva perfettamente il rapporto intercorrente tra questi genitori:
«Quello che non capisco», continuò Mary, «è che sembra che non si siano ancora abituati l’uno all’altra. Mamma è sempre sorpresa quando papà fa cose come non scrivere. E papà è sempre sorpreso quando la mamma vuole pagare i conti».

«Sì, e la mamma se ne dispiace così tanto», dissi io.
«È incredibile», disse Mary.
E comunque, la presenza/assenza di questo padre tanto brillante e sopra le righe, incostante quanto dedito ai suoi ideali, è perfettamente sintetizzata da Rose, quando afferma:
Il problema era che a tutti gli effetti in quella casa mancava un uomo. Io decisi di sopperire a quella mancanza.
La forza di questo romanzo è costituita dai suoi personaggi e dal modo in cui interagiscono tra di loro. L’autrice li descrive in maniera anche molto pittoresca, offrendo una serie di ritratti molto accattivanti nella loro cangiante diversità. Le due sorelle Mary e Rose sono accomunate, tra le altre cose, da un grande talento per la musica, ereditato dalla madre che da giovane fu una pianista professionista, mentre la sorella maggiore, Cordelia, risulta esserne del tutto priva, nonostante si eserciti con costanza e dedizione al violino. Questo personaggio a tratti risulta irritante, ma viene da chiedersi se non sia perché il lettore lo guarda attraverso gli occhi impietosi e disincantati di Rose. A ogni modo, Cordelia rappresenta un po’ la voce della verità, soprattutto quando esprime la sua frustrazione durante un tremendo sfogo che, per quanto fondato su fatti reali, mi lascia piuttosto amareggiata: la ragazza è certo animata da buone intenzioni, ma agisce in modo inadeguato per la sua età, dimostrando inoltre di non aver compreso davvero come stanno le cose.
«Non abbiamo niente, niente», disse, «e ora che ho la possibilità di fare qualcosa tu non mi permetti di coglierla perché ami di più gli altri. Voglio essere pagata e mettere da parte i soldi per poter ottenere una borsa di studio alla Royal Academy of Music o alla Guildhall e avere di che guadagnarmi da vivere...». Non penso avesse udito il grido di mia madre, si fermò solo perché il suo desiderio di notorietà era come un ventaglio che le si agitava in gola: «Poi quando avrò guadagnato qualche soldo studierò a Praga e allora a quel punto guadagnerò davvero bene e se mi sbrigherò prima che gli altri diventino troppo grandi potrò aiutare anche loro. Se non lo farò io», gridò «chi lo farà?»
E poi c’è il piccolo Richard Quin, il minore della nidiata, che per gran parte del libro allieta il lettore con le sue battute senza senso, risultando da subito l’unico capace di rasserenare la mamma quando il papà la rende triste. Si nota nel corso della lettura come egli assuma progressivamente un atteggiamento brillante e perspicace quanto quello delle sorelle, corredato in più da un’innata simpatia e da una considerevole capacità di farsi apprezzare dal prossimo. Ed è intelligente, riesce a cogliere le cose per quello che sono, senza ghirigori :
Richard Quin disse: «Non importa. Che sia un papà o che sia l’altro finisce comunque che nessuno di noi ha nulla, e questo nulla lo possiamo dividere in quante parti vogliamo, il nulla è divisibile finché si vuole, ce ne sarà sempre una quota per tutti».
Si potrebbe dilungarsi ancora parlando dei personaggi, ma credo che la cosa migliore sia scoprirli poco per volta tra le pagine di questo bellissimo romanzo. La trama peraltro scorre a balzelli, attraversando anche lunghi periodi di tempo in poche righe, per poi soffermarsi su un certo episodio per più capitoli. Lo stile della West non è sempre semplice, talvolta le sue descrizioni toccano la poesia, risultando quindi meno immediate e richiedendo un minimo sforzo per poter essere assaporate, ma nel complesso ogni parola vale la pena di essere spesa.



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