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Recensione: Steambros Investigation vol. 3 – Brothers war, di Alastor Maverick & L.A. Mely

Titolo: Steambros Investigation vol. 3 – Brothers war
Autore: Alastor Maverick & L.A. Mely
Editore: Dark Zone
Pagine: 240
Prezzo: 1,99 (ebook, disponibile a breve), 14,90 € (cartaceo)

Voto: 3,5/5

Puoi acquistarlo QUI.

Questo ebook ci è stato gentilmente offerto dagli autori in cambio di una recensione onesta.

Quarta di copertina: 

Grazie alle loro indagini, i fratelli Hoyt hanno scoperchiato il vaso di Pandora. Londra è in guerra. Le crudeli e avide mani di Damaskinos e del suo esercito di metallo mirano al trono della regina Vittoria, ma un manipolo di mercenari gli si oppone eroicamente. Nicholas e Melinda si troveranno al centro del conflitto, scoprendo di non essere da soli nella lotta. Riusciranno a trovare la verità sul destino di Emma? Il loro acume li salverà dal pericoloso despota? Riusciranno ad appianare le loro divergenze, aggravate dagli eventi, evitando un conflitto tra fratelli? “Ogni vero viaggio presuppone che si accetti l’imprevisto, qualunque esso sia. Anche quello di non essere più ciò che si era prima di partire.”

Recensione di Ariendil:

Eccoci all’ultimo capitolo della saga degli Steambros, i due investigatori di una Londra steampunk che nei volumi precedenti hanno saputo risolvere casi intricati ed enigmi, fino ad arrivare alla loro indagine più importante: trovare la sorella maggiore, Emma Hoyt, scomparsa quando erano piccoli e di cui non hanno saputo più nulla.
La figura di Emma, sempre presente come ricordo nei primi due libri, finalmente si palesa ai lettori e si prende, giustamente, buona parte del palcoscenico con una storia ricca di azione e cambi di setting. La sua è molto più di una parentesi, è il vero fulcro di questo romanzo, che vede messa da parte l’anima più strettamente investigativa della saga (con mia grande gioia, visto che detesto i gialli) a beneficio dell’action. Battaglie, esplosioni, armature potenziate, pistole supertecnologiche… Come? Vi siete persi lo steam in tutto questo? Beh, non avete tutti i torti, perché in effetti leggendo queste scene d’azione, e non solo, ci si dimentica un po’ dell’ambientazione fatta di vapore e ingranaggi e meccanica e ci si sente calati in una più vicina allo sci-fi, con armi che sparano a scelta del tiratore proiettili incendiari o narcotizzanti e corazze che, per quanto potrebbero essere compatibilissime con lo steampunk, non vengono descritte troppo nei loro aspetti più meccanici e si finisce per immaginarle come cyber robot. Tutto questo potrebbe far storcere il naso, ma non è così perché gli autori sono stati abili a inserire nella narrazione elementi più moderni rispetto all’età vittoriana tanto cara allo steampunk classico, che partono dal laboratorio di Nikola Tesla e finiscono ovunque la tecnologia combinata della meccanica e dell’elettromagnetica consente. Non è una novità nell’ambito del genere, ma è una scelta ad alto rischio rispetto a quella molto più facile di puntare sul solo vapore. A mio giudizio, è una scelta che ha pagato e che ha dato dinamismo e imprevedibilità agli scontri, soprattutto alla “brothers war” finale. A posteriori, poi, si può notare che è una scelta coerente in tutti e tre i libri, perché anche nei due precedenti si accenna a qualcosa di più avanzato di un ingranaggio fatto girare da un pistone a vapore.
Promossa quindi l’ambientazione, da cui anche questo terzo libro continua a trarre grande fascino. Promossi anche i protagonisti, i fratelli Nicholas e Melinda Hoyt, che subiscono quell’evoluzione che il lettore tanto attende nei romanzi e ancor più nelle saghe, ma che allo stesso tempo rimangono fedeli a se stessi, con i loro pregi e i loro difetti. Un po’ meno riusciti, a mio avviso, i personaggi secondari: Tesla, da cui mi aspettavo molto di più, rimane sempre nell’ombra, risultando degno di nota (nota di demerito perché odioso) solo nei battibecchi con Melinda; lo zio Carl si conferma un personaggio di scarsa rilevanza; il capitano Morris gode di un maldestro tentativo di riabilitazione ma finisce per essere ancora più macchiettistico di come era apparso nel primo libro. Per Eric ed Emma due considerazioni più approfondite. Il primo è un perfetto esempio di personaggio costruito solo ed esclusivamente perché serviva qualcuno che conducesse la storia nella direzione utile ad andare avanti, nel caso specifico qualcuno che cambiasse il destino di Emma e la portasse dai Gover. C’è stato un tentativo di costruire il personaggio, di dargli una storia e di motivare le sue azioni, questo è innegabile, ma forse è anche parte del problema: si finisce per dare molto spazio a qualcuno che, a conti fatti, serve solo per quell’unico gesto, che risulta troppo prevedibile. Inoltre, il lavoro fatto sul personaggio non lo rende più stabile e tutto in lui rimane traballante: le sue decisioni, i suoi rapporti con gli altri personaggi, il contesto nel quale si trova e perché ci si trova. In poche parole, è un personaggio poco credibile. Come, a tratti, risulta poco credibile Emma, che cade anche lei nella trappola di compiere azioni poco verosimili, giustificate solo dalle necessità di trama. Ad esempio, davvero era così fondamentale consegnare allo zio quegli orecchini dopo tutti quegli anni? Non ci sono ragioni concrete per cui farlo se non che serviva: in qualche modo doveva esserci il passaggio degli orecchini da Emma ai due fratelli e in qualche modo si doveva rompere lo status quo della permanenza serena di Emma dai Gover. E capisco l’esigenza narrativa di creare degli snodi che guidino la storia sui binari giusti, ma è fondamentale che questi snodi siano solidi, che siano parte integrante della struttura narrativa e rafforzati con elementi che diano loro ragione di esistere al di là della loro funzione di legante.
Stesso discorso per alcune scene specifiche che fanno da innesco per gli eventi successivi: ho già parlato di Eric, ma potrei citare anche l’assassinio della famiglia del poliziotto ribelle che viene sterminata davanti agli occhi dell’uomo e di tutta la polizia, evento che ha la duplice funzione di mostrare le forze dell’ordine asservite al villain e di causare il ripensamento del capitano Morris. Peccato che moglie e figlia del poliziotto siano state catturate dal cattivo prima ancora che questo si ribellasse. Come faceva a sapere che lo avrebbe fatto? O è solito sequestrare a turno la famiglia di ciascun poliziotto e solo casualmente quello del povero ribelle era stata presa proprio quella sera? Che tutte le famiglie di tutti i poliziotti siano tenute in ostaggio dai cattivi è da escludere visto che la prima cosa che fa Morris (stavolta comprensibilmente) è andare da moglie e figlio per dire loro di cambiare aria. Insomma, tutta la scena mi ha lasciato più di un punto interrogativo.
Quella che invece non mi ha affatto delusa, nonostante fosse molto difficile da rendere, è quella che coinvolge Nicholas Hoyt nel finale. Purtroppo non posso essere più precisa di così perché tutta quella parte è venuta talmente bene che sarebbe una cattiveria spoilerarla qui, ma vi basti sapere che sono stata per tutto il tempo a chiedermi: “ma è andata davvero in questo modo?”, “ma no, forse in quest’altro”, “no, aspetta, mi sa che era proprio così”. E stavolta questi punti interrogativi non sono figli di problemi nel testo, ma proprio di un prolungamento del coinvolgimento emotivo che si è riuscito a dare in un momento cruciale del romanzo. Davvero ben fatto. E la soluzione finale per tutta questa serie di domande è la più azzeccata possibile.
In fondo alla recensione, nota di merito per il lavoro fatto sulla scrittura. Rimane ancora qualche piccolo aggiustamento da fare, soprattutto sull’ormai occasionale uso di frasi fatte (“lotta senza esclusione di colpi”, “dolore lancinante”, ecc.) di cui si può fare tranquillamente a meno, ma la crescita anche da questo punto di vista è evidente ed è stata costante in tutti i libri. E questo lascia ben sperare per i prossimi.


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