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Recensione: Battle Royale, di Koushun Takami

Titolo: Battle Royale
Autore: Koushun Takami
Editore: Mondadori
Pagine: 613
Prezzo: 12,75 € (cartaceo)

Voto: 2/5

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Quarta di copertina: 

Repubblica della Grande Asia dell'Est, 1997. Ogni anno una classe di quindicenni viene scelta per partecipare al Programma; e questa volta è toccato alla terza B della Scuola media Shiroiwa. Convinti di recarsi in una gita d'istruzione, i quarantadue ragazzi salgono su un pullman, dove vengono narcotizzati. Quando si risvegliano, lo scenario è molto diverso: intrappolati su un'isola deserta, controllati tramite collari radio, i ragazzi vengono costretti a partecipare a un "gioco" il cui scopo è uccidersi a vicenda. Finché non ne rimanga uno solo... Edito nel 1999, "Battle Royale" è un bestseller assoluto in Giappone, il libro più venduto di tutti i tempi; diventato fenomeno di culto, ha ispirato celebri film, manga sceneggiati dallo stesso Takami e videogiochi. Scritto con uno stile insieme freddo e violento, "Battle Royale" è un classico del pulp, un libro controverso e ricco di implicazioni, nel quale molti hanno visto una potente metafora di cosa significhi essere giovani in un mondo dominato dal più feroce darwinismo sociale.


Recensione di Ariendil:

Battle Royale è il tipico romanzo che fa sorgere la domanda: per rendere buono un libro è sufficiente una buona idea?
Non ho la presunzione di avere la risposta a una domanda del genere, o almeno non una che abbia valore universale, ma ho una mia opinione ed è la seguente: non solo una buona idea non è sufficiente per rendere buono un libro, ma bisognerebbe pensarci più e più volte prima di utilizzare quella buona idea perché sprecarla in un libro brutto è da scellerati.
Sì, Battle Royale è un libro brutto e non credo ci siano altri termini per definirlo. È brutto quanto può essere brutto un cubo di cemento piazzato sul pendio boscoso di una montagna. Stride con la bellezza potenziale che poteva offrire e per questo risulta peggiore alla vista della più degradata tra le periferie.
Battle Royale poteva dare tanto. Alla base, l’idea è una bomba: ogni anno, una classe di terza media della Repubblica della Grande Asia dell’Est viene scelta, suo malgrado, per partecipare a un gioco sanguinario voluto dal governo. I ragazzini vengono confinati in un luogo sperduto, armati e costretti a uccidersi tra loro finché non resterà un unico sopravvissuto, vincitore del gioco. Non c’è modo di sottrarsi perché scappare è impossibile e i collari elettronici sono pronti a esplodere non appena si tenta la fuga, né si può deporre le armi e smettere di uccidere i propri compagni perché anche in quel caso i collari si attiveranno. Bisogna giocare. Bisogna diventare assassini. A volerlo è il governo della Repubblica della Grande Asia dell’Est, che di repubblicano ha ben poco, somigliando di più, per stessa ammissione dei personaggi a un regime totalitario, violento, oscuro nei propositi. Perché vuole questo gioco? È questa la domanda che attanaglia fin dalle prime pagine. La spiegazione che viene data non regge: si parla di scopi militari, di un esercito che ha bisogno di combattenti, ma questi giochi forniscono più materiale da obitorio che soldati. Resta un mistero, il primo grosso buco di trama che si è costretti a rattoppare per poter proseguire nella lettura. Lo si accetta, lo si dà per inevitabile, cercando di immedesimarsi anche da questo punto di vista con i poveri ragazzi, che di certo non stanno lì a pensare alle motivazioni dei governanti mentre combattono per la vita. E combattono davvero, chi per necessità, chi spinto dalla paura, chi perché ha sempre avuto un animo marcio che aspettava solo l’occasione per mostrarsi. La classe è ben bilanciata da questo punto di vista, e vengono proposte spesso situazioni differenti che movimentano il racconto e offrono spunti interessanti. C’è anche un tentativo di approfondimento dei personaggi: di quasi tutti i ragazzi si finisce per conoscere storia e motivazioni, con flash sul passato, discese nelle profondità dell’animo, elucubrazioni, speranze, paure. Fin troppo, perché a volte si perde di vista la fondamentale differenza tra protagonisti e comparse: troppe pagine dedicate a chi poi finisce per non aver peso negli eventi del libro o degli altri personaggi e, al contrario, qualche personaggio a cui viene dato un po’ troppo alla leggera il ruolo di coprotagonista, senza che venga sviluppato in modo adeguato per sostenerlo. È il caso di Noriko e Shinji, la prima totalmente oscurata dai due ragazzi che la accompagnano, il secondo il tipico caso di poco arrosto sotto il fumo.
Ma tutto quello che ho scritto finora non è il motivo per cui definisco brutto questo libro.
I motivi principali sono due.
Il primo, e sarò diretta tanto quanto lo sono stata finora, è che è scritto male. Non “in un modo che a me non piace”. Non “all’avanguardia”. Male. In parte può essere un problema di traduzione, me ne rendo conto, non deve essere semplice rendere in italiano una lingua tanto diversa sia grammaticalmente che sintatticamente, ma è impensabile che non si riesca a mettere gli eventi sulla giusta scala temporale utilizzando correttamente i tempi verbali: in una narrazione al passato, l’anteriorità (un passato ancora più passato) viene espressa dall’utilizzo del trapassato, ma questo spesso viene dimenticato e viene usato ancora il passato, mettendo sullo stesso piano temporale gli eventi del gioco e quelli precedenti a esso.
Di certo, però, non può essere imputabile alla traduzione in italiano la resa dei personaggi. Come detto finora, i protagonisti del romanzo sono ragazzi di terza media. È vero che la nostra generazione è cresciuta guardando alla tv attori trentenni che interpretavano dei liceali ed è anche vero, restando in tema nipponico, che ben pochi eroi di manga e cartoni erano maggiorenni, ma è altrettanto vero che i personaggi di Battle Royale dimostrano l’età che hanno solo in rari casi. Se può essere considerata adeguata all’età una conversazione sui compagni o le compagne per cui ci si è presi una cotta o la passione per il cantante del momento o ancora la fissazione per gli sport, risultano invece del tutto fuori range capacità come saper costruire bombe, essere un hacker così esperto da mettere in crisi il governo, padroneggiare le arti marziali tanto bene da poter sconfiggere senza problemi Chuck Norris, Van Damme e Ryu di Street Fighter. Anche il linguaggio è poco verosimile, alternando discorsi sull’amore da Via col vento ad altri che dovrebbero evidenziare la figaggine di questo o quell’altro personaggio, tipicamente presentato come il James Dean della situazione.
Parentesi finale sulla violenza. Battle Royale è un romanzo in cui abbondano sangue, ossa rotte, teste spaccate, budella e chi più ne ha più ne metta, e a mio avviso questo non è un difetto. Si sta combattendo per la sopravvivenza e, sebbene si potesse scrivere lo stesso romanzo anche in modo meno cruento, ci sta la scelta di mostrare anche gli aspetti più sanguinosi della vicenda. Quello che ci sta un po’ meno, secondo me, è quel paio di rimandi agli stupri (mai mostrati nella narrazione, ma solamente raccontati dai personaggi) che sembrano utilizzati al solo scopo di sottolineare una violenza che non si sapeva in che altro modo mostrare. Il primo esempio lo abbiamo quasi all’inizio, quando il rappresentante del governo che dà il via al gioco dice di aver stuprato una donna legata a uno dei ragazzi per non farle rivelare alcune informazioni. Ora, io non ci vedo il nesso causa-effetto, non vedo come un’azione di questo tipo possa portare al risultato voluto, a me sembra messa lì solo per il motivo su detto, perché, diciamocelo, neanche la violenza è venuta tanto bene in questo libro. Non riesce a disgustare, non riesce a impressionare, non riesce a terrorizzare. Riesce a riempire pagine, questo sì.

In conclusione, un romanzo scritto male e costruito ancora peggio, che getta alle ortiche la buona idea iniziale, per fortuna ripresa da altri. Hunger Games non sarà un capolavoro, intendiamoci, ma mi sento grata alla Collins, nel caso in cui sia vero che si sia ispirata proprio a Battle Royale, per aver almeno colorato di verde il cubo di cemento in mezzo al bosco. Poi però per una buona lettura a tema “one man standing” magari provate con “L’uomo in fuga” o “La lunga marcia”.


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